Secondo gli ultimi rumors, gli studenti delle scuole superiori torneranno di nuovo in classe dal prossimo 14 dicembre; almeno è questo quello che si vocifera e l’idea sulla quale il premier Giuseppe Conte ha intenzione di muoversi per le prossime misure anti-contagio. Intanto, le linee guida della Commissione Europea consigliano di valutare ancora la formula DAD (Didattica a Distanza) e la DID (Didattica a Distanza Integrata) per scongiurare il diffondersi del virus nei diversi istituti senza distinzione di ordine e grado.
Ciò che preoccupa, però, è che se sarà confermata quest’ultima scelta, gli studenti con disabilità intellettive vedranno, ancora una volta, sottrarsi il principio volto al rapporto di socialità e, quindi, la perdita fondamentale del rapporto di collettività con i propri coetanei e compagni di classe.
I preoccupanti dati del MIUR
I dati del Ministero dell’Istruzione parlano chiaro. Durante il periodo pandemico sono stati circa 284 mila i bambini con disabilità abbandonati dal sistema, sia per incompetenza di una classe docente e sia per difficoltà da parte delle famiglie che non erano in possesso della tecnologia adeguata; inoltre, il 70% non ha partecipato nemmeno alla didattica a distanza rimanendo completamente isolato e privato dell’incontro quotidiano con i compagni escludendosi, così, da ogni stimolo culturale e didattico.
Nonostante ciò, alcuni ragazzi con disabilità intellettiva si sono adattati alla situazione Covid-19 optando per lo svolgimento della didattica in presenza col docente di sostegno che, nonostante il periodo complicato, è riuscito a porre in essere azioni virtuose individuando modalità efficaci per assicurare il diritto allo studio e mantenere contatti vitali e significativi con il gruppo classe.
Sostegno scolastico ed emergenza sanitaria
La didattica a distanza per gli alunni con disabilità intellettiva non si caratterizza nell’insegnamento dell’emergenza, bensì è la dimostrazione che l’istituzione scolastica rappresenti il luogo necessario per lo sviluppo e la crescita delle persone.
È indubbio, quindi, che il Covid-19 abbia tolto il respiro all’inclusione che si pone in un netto ed evidente contrasto rispetto a quanto sancito dalla Legge n. 517/77 che determina il diritto all’inclusione nella scuola di tutti - senza nessuno escluso - e che introduce la figura dell’insegnante di sostegno nella scuola dell’obbligo italiana.
Secondo quanto disciplinato dalle "Linee guida per l'integrazione scolastica degli alunni con disabilità", l’insegnante di sostegnoviene assegnato alla classe in cui è inserito l'alunno con disabilità certificata, in piena contitolarità con gli altri docenti curricolari, per attuare forme di integrazione e realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni. Compito ricalcato anche dalla nota dell’USP di Como n. 7490 del 10-11-2017 che afferma che il ruolo del docente di sostegno è quello di «contitolare della classe nelle attività didattiche, ma la cui funzione tipica è quella di supporto alla classe del disabile, dovendo proseguire tale funzione anche in caso di assenza del docente curricolare». Ciò comporta, inoltre, che non è possibile utilizzare tale docente per effettuare supplenze poiché, oltre a costituire inadempimento contrattuale, comporterebbe anche l’illecita preclusione di un diritto costituzionalmente garantito ai danni dell’alunno con disabilità affidatogli.
Ma passare dalla teoria alla pratica risulta un’impresa assai ardua, soprattutto in tempi di Covid-19 in cui si sono venute a creare inevitabili disuguaglianze poiché, le misure attuative per la prevenzione sanitaria, sono risultate completamente inadeguate per l’integrazione degli studenti con disabilità e hanno di fatto interrotto il processo di pubblico servizio per il quale è chiamato il docente di sostegno trasformando, così, il suo compito in una vera e propria “vigilanza” delle regole anti-contagio.
È importante ricordare che la scuola sia l’unico servizio non sanitario di fondamentale importanza per la vita degli alunni con disabilità intellettiva, il cui fine è la socializzazione e anche la possibilità d’inserimento in un contesto più ampio di quello famigliare. Ciò comporta, quindi, che la parola “inclusione”, non significhi solo imparare cose e creare cultura, ma rappresenti la piena attuazione del relazionarsi con la società circostante.